2023.09.02 − squadra fighiera
Ultima modifica: 2023-11-12 // 08:37:13↩ Torna all'archivio relazioni.
Ore 9:00 di un caldo e soleggiato sabato settembrino. Dopo aver parcheggiato poco prima dello sterrato che porta al valico di Fociomboli, zaino in spalla, ci si incammina passando tra sentieri rocciosi e verdi boschi. Picnic in montagna? Per qualcuno della comitiva lo sarà, ma è solo l’inizio di una lunga, faticosa ma interessantissima giornata. L’avvicinamento all’ingresso n° 19 dell’Antro del Corchia richiede circa un’ora, piacevolmente trascorsa in disquisizioni sull’afosità del clima, l’arsura agostana, la calura sabatina settembrina e, deformazione professionale, le ustioni solari. Fortunatamente, in mezzo a questi argomenti frizzanti, s’è trovato anche un buco per parlare un po’ di speleologia. A proposito di buchi, ancora non m’hanno spiegato perché quello da cui siam entrati è chiamato anche “Buco della Piera non fa tabacchino”. Mentre mi scervello cercando una soluzione a questo vitale problema, io e la mia super squadra composta dal solo Salvatore (che conta per tre), ci accingiamo ad entrare al fresco. Ore 10:40 circa, ci si immette nello stretto passaggio che ci porta al mondo ipogeo. L’obiettivo è andare a vedere cosa c’è alla fine di un pozzo a circa tre ore di progressione dall’ingresso. Chiaramente, tre ore di progressione per il sottoscritto. Dopo diversi mesi di astinenza dalla speleologia, alcune manovre piuttosto ardite, come il semplice camminare, devono essere ripassate accuratamente. Tutto ciò ovviamente ci rallenta quanto basta per far sì che le previsioni di Sasà vengano rispettate. Ciononostante, ci si muove con una certa costanza, percorrendo prima Via Fani, poi il Ramo dei Conglomerati, successivamente le Gallerie di -250. Nel frattempo, la mia guida, dall’alto della sua esperienza, mi illustra con un’innaturale semplicità come destreggiarsi tra rocce scivolose e altre insidie, trovando anche tempo per descrivermi come continuano alcune gallerie e altri dettagli su una delle grotte più belle del mondo. Proseguendo si superano l’ex campo base del GSAV e quello dei piemontesi, nei pressi del quale si può fare rifornimento idrico da una cascatellina posta in una nicchia rocciosa. Si giunge quindi al “Pozzo dell’Asino che Raglia Buoni Consigli”, ma quali che siano non mi par di averli sentiti… Nonostante la mia ancora manifesta avversione per le altezze, riesco a gestire senza troppe complicazioni i vari frazionamenti che portano a poco più di venti metri più sotto. Qui ci si trova in una sala dove si scorge il nostro obiettivo, un terrazzino poco distante già armato, alto non più di una decina di metri. Da lì, mi viene spiegato, ci si immette in un pozzo detto p105, la cui parte più bassa deve ancora essere visitata. Prima di avventurarci in questa missione, proseguiamo avanti ancora qualche minuto per raggiungere il campo base Hilton, sul piano di gallerie di -350. Un angolino di civiltà in mezzo a tanta nuda roccia, decisamente suggestivo. Qui siamo intorno alle 13:15 e pertanto decidiamo di fare pausa pranzo. Circa un’oretta più tardi siamo di nuovo in movimento ed in breve torniamo alla base del terrazzino armato. Mentre Sasà risale come se avesse un motorino elettrico nascosto nei bloccanti, il sottoscritto litiga non poco con l’imbragatura, che, a quanto pare, godendo di vita propria, ha deciso di modificare la sua conformazione rispetto a quando l’ho indossata qualche ora addietro. Giunto in cima dopo varie tribolazioni e dopo aver evitato qualche sasso poco stabile, mi rendo conto che la progressione in grotta in quelle condizioni non è fattibile. Pertanto, mentre l’Impresa Edile Iannelli ristruttura un po’ la zona e arma il tratto terminale del P105, io mi fermo per smontarmi e rimontarmi l’imbragatura almeno mezza dozzina di volte. Senza perdere tempo Salvatore prosegue nel pozzo che, da come me lo descrive, è di circa 25 metri, attivo e con pareti di marmo bianco. La sua conoscenza del Corchia mi stupisce ancora una volta, quando, dopo breve, mi urla che vi è una congiunzione con un altro pozzo che lui conosce: il pozzo del Divano. Mi riferisce anche della presenza di una strettoia che, dalla base del pozzo appena disceso, continua ancora per circa 30 metri in mezzo a dei blocchi di crollo precari. Di sicuro in futuro troverà il modo di aggirare il problema. Detto ciò, mi raggiunge nuovamente e, complice anche l’orario, decidiamo di rientrare per essere fuori per l’ora di cena. La risalita dal Pozzo dell’Asino mette a dura prova le mie riserve energetiche che fino a quel momento non davano particolari segnali di esaurimento; a tal punto che, quando successivamente mi viene proposta una veloce deviazione dal percorso di ritorno, sono un tantino restio. Fortuna vuole che non abbia assecondato la mia pigrizia, visto che la deviazione (veramente breve) ci porta in prossimità della maestosa Sala Meinz. Lottando con i crampi e la sindrome di Stendhal, ritorniamo quindi sul percorso principale. Tutto prosegue bene, anche se un po’ a rilento per colpa mia, ma intorno alle 19:15 siamo di nuovo all’aria aperta. “Vieni a Levigliani?” mi chiede un serenissimo Salvatore dopo essere tornati infine alle vetture. Ma se il richiamo della montagna è irresistibile, quello del cibo, per me, lo è un po’ meno. Rifiuto l’invito e, abbastanza provato, mi congedo domandando quando sarà la prossima uscita. “Vedrai tra due settimane saremo di nuovo al Fighiera o al Farolfi” è ciò che mi dice. E mentre torno prostrato a casa, i miei pensieri non possono che restare lì, tra gli anfratti e le vette delle Apuane.
Gabriele Edoardo Gori
